Lewin, famoso ricercatore sociale, dedica nel suo libro un capitolo alla soluzione di un conflitto cronico in una industria, che “covato a lungo si manifestava periodicamente, ma era sempre stato in qualche modo sopito”.

Un intervento svolto da una persona attenta alle dinamiche psicologiche, attraverso l’uso del gruppo riesce a condensare i principi economici e di benessere di una realtà lavorativa.

La storia riportata è parte di una ricerca di Alex Favelas un ricercatore che stava compiendo studi di psicologia del lavoro. Gli eventi sono ambientati in una fabbrica di cucito con cinque reparti di produzione ed alcuni servizi (nell’esempio il meccanico) condivisi da tutta le struttura: sono presenti quindi gruppi di lavoro, coordinatori, servizi interni si supporto ed anche il dirigente della società stessa. Lo psicologo che riporta la storia è anch’egli all’interno della struttura con obiettivi di ricerca ma viene coinvolto dal dirigente nella gestione di un litigio tra il coordinatore ed il tecnico sulle priorità delle riparazioni che venivano richieste. Nelle difficoltà che i due manifestavano erano incluse anche alcune operaie che parevano complicare il già difficile rapporto di collaborazione tra le due figure.

La vicenda riportata ha la chiara disposizione del clima che determina quello che oggi definiremmo “stress da lavoro correlato”, con operatori coinvolti emotivamente, emozioni negative, svalutazione dei colleghi e collaboratori, blocchi e relativi cali nella produzione fino alla manifesta volontà di abbandonare il lavoro da parte di alcuni.

Lo psicologo parla inizialmente con il capo e con i soggetti coinvolti direttamente nella diatriba, in una fase successiva coinvolge anche le operaie dell’industria, prima in forma individuale poi con una modalità “di gruppo”, fino a fare quello che noi chiamiamo

un intervento attraverso la discussione di gruppo per lo sviluppo della qualità interna: “elaborare insieme un piano di azione per ridurre il tempo in attesa delle riparazioni. Accettarono tutte con entusiasmo.” Attraverso la discussione di gruppo vengono sviluppate azioni che non solo sono utili a risolvere il conflitto ma sviluppano la produzione e il clima di tutto il gruppo lavorativo.

in tal modo il processo si sviluppa su tre direttrici:

  1. spostamento delle emozioni sui fatti;

  2. costruzione di alleanza e fiducia con il livello di coordinamento;

  3. costruzione di alleanze e fiducia all’interno del gruppo di lavoro.

Lo psicologo continua ad incontrare i soggetti coinvolti nella discussione realizzando molte mediazioni attraverso il colloquio e la condivisione delle decisioni prese dai vari gruppi coinvolti. Tutte le azioni dello psicologo sono mirate a seguire i fatti e a trasmettere le informazioni, ponendo attenzione a non influenzare o a “ingannare” qualcuno per arrivare velocemente ad una soluzione del conflitto. Incontri di gruppo e individuali si alternano per definire alcune decisioni pratiche ed alcune regole di comportamento interno, nel modo maggiormente condiviso possibile.

“Il trovarsi insieme per discutere ed elaborare un piano di comportamento, costituisce già uno sforzo verso un’azione fondata sulla cooperazione. L’atmosfera di collaborazione, franchezza e confidenza, che un procedimento si propone d’instaurare, è il risultato del superamento di numerosi ostacoli”

Nell’epilogo del racconto il capo riporta allo psicologo che il tecnico adesso aveva molto tempo libero, i rapporti tra coordinatore e tecnico erano migliorati e i conflitti con i componenti del gruppo di lavoro spariti. Addirittura il tecnico aveva istallato nello stabilimento un sistema di filodiffusione a sue spese che permetteva a tutti gli operai di ascoltare della musica.

Estremamente chiaro l’effetto del benessere sul lavoro in questa descrizione, che Lewin commenta così:

“Anche il migliore dei piani di riorganizzazione dei canali di produzione, risulta inefficace se non si adatta agli esseri umani che vivono e reagiscono nell’ambiente di lavoro”.

Per ritornare a quello che rappresenta uno strumento di lavoro importantissimo si vuol notare, insieme a Lewin stesso l’importanza di chi organizza gli incontri di gruppo:

[…] gli incontri di gruppo non sono un toccasana per tutti i mali: devono essere attentamente preparati, momento dopo momento, tenendo conto delle situazioni psicologica dell’individuo tendo conto della posizione che egli occupa all’interno del gruppo nel suo complesso”.

Bibliografia:
Lewin K. (1948). I conflitti sociali, Franco Angeli editore; ed in particolare il capitolo: La soluzione di un conflitto cronico in un'industria (1944) pag. 169 - 185.
Articolo pubblicato sul n.64 della rivista online della Societa Italiana per la Promozione della Salute (SIPS)

La parola resilienza deriva dal termine re – salio che significa «rimbalzare» ma anche essere toccati da qualcosa di negativo.

Il termine è stato inizialmente utilizzato in fisica per sottolineare la capacità di un materiale di resistere ad urti e sollecitazione ed attualmente la parola resilienza viene utilizzata da diverse discipline tra le quali fisica, ingegneria, economia, psicologia, sociologia.

A causa del modello patocentrico dominante che assume l’equazione rischio-disadattamento nelle scienze umane questo modello appare solo molto recentemente.

Studi longitudinali pionieristici compiuti negli anni 70 da psichiatri e psicologi (Germezy, 1974. Rutter, 1985) permisero negli anni 80 di consolidare il concetto di resilienza e ribaltare l’ottica determinista che reputava inevitabili gli effetti dei fattori di rischio.

Bonanno (2004) definisce la resilienza come mantenimento di una stabile omeostasi nel funzionamento fisico e psicologico difronte alle avversità, mentre Ferraris (2003) parla di “sistema immunitario della psiche”.

Kaplan distingue tra resilienza di esito, ossia funzionamento fisico e psichico non intaccato dalle difficoltà ; e di processo, ossia l’interazione tra i fattori di rischio e di protezione. entrambe le differenziazioni condividono comunque due elementi: i fattori di rischio e L’adattamento. In tutti i casi la resilienza è un elemento dinamico, in cui la persona gioca un ruolo attivo e non rigido una volta per tutte (Rutter, 1979).

In un ottica ecologica lo studio della resilienza si estende dalla persona alla famiglia sino alle comunità esposte ad eventi critici . Tobin nel 1999 elabora una cornice concettuale per analizzare lo studio della resilienza di comunità distinguendo tre modelli:

  • modello della diminuzione del rischio;
  • modello del recupero dell’impatto;
  • modello di modificazione dei fattori strutturali e cognitivi allo scopo di favorire la prevenzione dei rischi.

Un interessante riflessione è quella fatta dal team dell’Atlantic health promotion research unit (AHPRU, 1999) dove evidenzia che il concetto di resilienza di comunità differisce da quello di comunità in salute perché presuppone necessariamente la presenza di fattori di rischio

Con gli studi di Tugade e Fredrikson (2004) che sottendono la psicologia positiva difronte all’evento critico si è ribaltata la prospettiva di studio della resilienza in psicologia che ha iniziato a lavorare sulla comprensione di ciò che rende la persone felici e capaci di “rendere la vita degna di essere vissuta” (Seligman e Cisikszentinihayly). In questo approccio il fulcro si sposta sulle caratteristiche che costituiscono una personalità positiva e non si lavora più in termini di fattori di rischio ed adattamento.

Bibliografia

AHPRU (1999). A Study of Resiliency in Communities. Ottawa: Health Canada.

Bonanno, G. A. (2004). Loss, trauma, and human resilience: Have we underestimated the human capacity to thrive after extremely aversive events? American Psychologist, 59(1), 20–28.

Ferraris, O. A. (2003). Resilienti: la forza è con loro, Psicologia contemporanea, 179, 18-25.

Garmezy, N. (1974) The study of competence in children at risk for severe psychopathology. International Yearbook, Vol. 3 (pp. 547). New York: Wiley.

Tobin, G. A. (1999). Sustainability and community resilience: the holy grail of hazards planning, Environmental Hazards, 1, 13-26.

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Tugade, M. M., Fredrickson, B. L., & Feldman B. L. (2004). Psychological resilience and positive emotional granularity: Examining the benefits of positive 196 emotions on coping and health. Journal of personality, 72 (6), 1161-1190.

Kaplan, H. B. (1999). Toward an understanding of resilience: a critical review of definitions and models. In M. D. Glantz, & J. L. Johnson, (Eds).. Resilience and Development: Positive Life Adaptations (pp. 17-83). New York: Kluwer Acad./Plenum

Articolo completo sul n. 53 di Notizie dalla Società Italiana per la Promozione della Salute

Le pagine che seguono cercano di spiegare come una gestione democratica delle persone possa influenzare in senso positivo il benessere sia organizzativo che personale.

Il benessere dipende dal “rapporto che lega le persone al proprio contesto sia questo lavorativo, familiare, culturale, scolastico, prendendone in considerazione le molteplici variabili, fra le quali: le relazioni interpersonali, il senso e il significato che le persone attribuiscono ai propri impegni, il senso di appartenenza alla propria organizzazione, l’equità nel trattamento o nell’offerta di opportunità di crescita e miglioramento lavorativo, l’ambiente accogliente e piacevole” (La Rosa, 1992).
Quindi, promuovere il benessere significa sviluppare queste variabili che hanno forti ricadute in senso positivo sia sulla qualità produttiva di una ipotetica azienda che sul contesto sociale e soprattutto sulla salute dell’individuo.
Restringendo il campo di analisi all’ambito organizzativo il benessere può essere inteso come la capacità di un’organizzazione di promuovere e mantenere il più alto grado di benessere fisico, psicologico e sociale dei lavoratori e risente di una serie di variabili, in questo caso ritroviamo il concetto di clima tra le più rilevanti: Il clima è il prodotto di elaborazioni percettivo-cognitive che danno come risultato delle rappresentazioni cognitive che riflettono l’interpretazione del contesto su quegli aspetti psicologicamente significativi per gli individui (Gattai, 2011; James, Hater, Gent, & Bruni, 1978; James & Jones, 1974).
Il costrutto di clima “Clima organizzativo” entra in letteratura negli anni 60 ma il primo a inserire tale concetto fu Kurt Lewin che inserì, tale concetto con il termine di “atmosfera psicologica” nella sua teoria del campo (Lewin, 1951, 1980) con la quale dava le basi alla psicologia sociale spiegando il comportamento umano come derivante tra l’interazione tra fattori interni (persona) ed esterni (ambiente).

Il clima influenza l’attitudine dei lavoratori nel concentrarsi sulla performance lavorativa e sulle relazioni personali e a sua volta è influenzato dal grado di accettazione, della cultura dell’organizzazione. In altri termini, gli individui che lavorano in un’organizzazione si costruiscono, con il passare degli anni, una percezione molare e condivisa della propria organizzazione, che, oltre a guidarli nella lettura dei principali processi lavorativi, delle modalità di presa delle decisioni, delle norme e dei valori, influenza i propri comportamenti, le proprie emozioni e l’armonizzazione con le cognizioni, nonché i comportamenti richiesti dall’organizzazione) dando luogo concetto di cultura organizzativa (Lazzari, Pisanti, & Avallone, 2006).
Il clima di un gruppo di lavoro è buono quando c’è il giusto sostegno e calore da parte dei colleghi e dei superiori, i ruoli sono riconosciuti attraverso la valorizzazione delle capacità dei membri, la comunicazione è aperta, sincera e fornisce feedback chiari e accettabili sui comportamenti e sui risultati.
Il concetto di clima e di conseguenza quello di benessere, si colloca quindi nell’ambito dei processi relazionali, intesi come elementi di acquisizione soggettiva e scambio comunicativo nel gruppo e come momento di contatto con tutte le realtà presenti in un organizzazione o una comunità. I processi relazionali (comprendenti la comunicazione, l’ascolto, il feedback, il sostegno) rappresentano un elemento fondamentale per il clima/benessere organizzativo in un’azienda ma anche di una comunità.
La comunicazione è vista non più come strumento o come artificio per l’esercizio di potere ma come un setting, un’arena attraverso la quale è possibile esporre, condividere selezionare assemblare idee e proposte alla ricerca della soluzione.
Se la comunicazione è direttamente collegata al clima, le relazioni lo sono allo stile del gruppo o meglio alla sua cultura, aspetto che comprende norme, valori e stile di conduzione. Lo stile di conduzione democratico, si configura come una modalità di relazione, anzi di configurazione del gruppo tale per cui si possono esprimere al massimo le differenze personali e aumentare la “ricchezza” totale del gruppo stesso. Lo sviluppo di benessere è quindi sicuramente collegato con la possibilità di partecipazione, espressione e valorizzazione, tutte caratteristiche collegate con il gruppo democratico (Lewin, Lippitt, & White, 1939). La realizzazione di un gruppo democratico non è però scontata o semplice scelta manageriale: certo la leadership è fondamentale come guida, ma necessita anche della presenza delle competenze degli integranti e non solo del capo (Marocci, 2011). Partecipare allo stile democratico richiede:

  1. la capacità di confronto, di tollerare i suoi conflitti, perché controintuitivamente la democrazia in un gruppo non è l’assenza di conflitto ma anzi la sua valorizzazione come stimolo di crescita.
  2. La competenza di ascolto, questa comporta la capacità di ascoltare l’altro eliminando i preconcetti presenti. Spesso alcuni minuti di reale comprensione dell’altro possono fare miracoli; problematiche e sentimenti vengono all’aperto e rendono più facile la soluzione.
  3. Competenza di consapevolezza, che consiste nella capacità di percepire i propri bisogni e desideri e nella abilità di esporli agli altri senza erogarne pretese.
    Tutti aspetti che richiedono la crescita personale proprio in funzione del lavoro di gruppo (Gordon, 1999).

Riassumendo

Comunicare in modo efficace è una competenza indispensabile perché abbassa i costi personali, sociali o aziendali, in termini di clima e di collaborazione, connessi alla mancanza di chiarezza e di condivisione dei messaggi e alle difficoltà create da comunicazioni conflittuali, ripetitive o improduttive.
Comunicazione, clima e benessere sono concetti sempre più legati fra loro, il che fa intuire il valore che un buon livello di comunicazione può conferire ai processi sia operativi aziendali che sociali.
L’approccio democratico alla comminuzione vede gli individui rispondere alla specifica situazione interagendo gli uni con gli altri conducendo il gruppo verso un accordo condiviso che porta gratificazione e senso di appartenenza incentivando motivazione autostima e migliorando progressivamente il clima.
Se il clima interno tiene in debito conto dei fattori “sociali” esistenti, come i valori, la cultura e anche i sentimenti e bisogni dei dipendenti, è possibile instaurare un percorso di crescita e benessere basato sulla gestione democratica di tutto il gruppo di lavoro che instaura uno stato di “benessere organizzativo”.

Bibliografia

Gattai, A. (2011). Un approccio quali-quantitativo alla valutazione dei rischi psicosociali. In Rischio stress lavoro-correlato. Milano: Raffaello Cortina Editore.
Gordon, T. (1999). Leader efficaci. La meridiana.
James, L. ., Hater, J. ., Gent, M. ., & Bruni, J. . (1978). Psichological climate: Implications from cognitive social learning Theory and interactional psychology. Personnel Psychology, 31, 783–814.
James, L. ., & Jones, A. . (1974). Organizational climate: A review of theory and research. Psichological Bullettin, 81, 1096–1112.
La Rosa, M. (1992). Stress e lavoro. Milano: Franco Angeli.
Lazzari, D., Pisanti, R., & Avallone, F. (2006). Percezione di clima organizzativo e burnout in ambito sanitario: il ruolo moderatore dell’alessitimia. G Ital Med Lav Erg, 28(1), 43–48.
Lewin, K. (1951). Field theory in social science. book, New York: Harper & Row (trad. it Teoria e sperimentazione in psicologia sociale. Il Mulino. 1972).
Lewin, K. (1980). I conflitti sociali (3th ed.). Milano: Franco Angeli.
Lewin, K., Lippitt, R., & White, R. K. (1939). Patterns of Aggressive Behavior in Experimentally Created “Social Climates.” The Journal of Social Psychology, 10(2), 269–299. JOUR. http://doi.org/10.1080/00224545.1939.9713366
Marocci, G. (2011). Inventare l’organizzazione. Bologna: Patron editore.

Uno degli esperimenti più famosi della psicologia sociale è stato quello di Mayo condotto presso le industrie Howtorn.
Nella ricerca di dimostrare l’effetto positivo dell’illuminazione sulla produzione, Mayo fu colpito da un evento apparentemente incomprensibile, la produzione di relè aumentava anche quando le condizioni di illuminazioni diminuivano!
Mayo, nato e laureato in filosofia e psicologia in australia, nel 1927, mentre era docente alla Harvard Business School, partecipò ad un esperimento commissionato dalla Western Electric Company, in un proprio impianto che produceva materiale telefonico a Chicago. Durante la prima fase di studio (1923-1927) furono evidenziati alcuni risvolti inaspettati: oltre all’aumento della produzione in condizioni di migliore illuminazione, fu registrato in generale un aumento della produzione anche nelle condizioni di peggiore illuminazione, un incremento che non poteva essere giustificato dalla sola illuminazione, in quanto era registrato in tutta la linea produttiva: durante i vari esperimenti veniva registrato un impegno addizionale dei lavoratori la cui unica spiegazione sembrava essere per “soddisfare” i ricercatori e dimostrare la propria abilità.

Questo concetto ebbe notevoli implicazioni, sia metodologiche che manageriali. Dal punto di vista metodologico, introdusse la
consapevolezza che l’atto di osservazione in sé stesso può influenzare il comportamento dei soggetti della ricerca e, quindi, confondere gli effetti di altre variabili indipendenti. Dal punto di vista manageriale, la consapevolezza riguardò invece una correlazione, a quel tempo assolutamente inedita, e cioè che la comunicazione e l’interazione con i lavoratori poteva portare a maggiori livelli di impegno e di produttività.

Nella seconda fase della ricerca Mayo, assieme ad altri ricercatori, utilizzarono un campione di 6 donne (ed in seguito anche da un campione scelto da alcune partecipanti), che furono sottoposte a diverse condizioni lavorative, variando le pause e l’orario di lavoro, sempre spiegate anticipatamente e sotto l’osservazione di un supervisore che interagiva in modo amichevole. I risultati mostrarono un aumento in tutte le condizioni sperimentali, e paradossalmente anche nell’ultima che prevedeva il ritorno alle condizioni (peggiori) iniziali.

“L’unica spiegazione del fenomeno fu che l’aumento di produttività in condizioni svantaggiose fosse dovuto al fatto che durante l’esperimento i sei individui si erano trasformati in un gruppo e il gruppo stesso aveva deciso di collaborare all’esperimento, avendo quindi la sensazione di partecipare liberamente, senza essere sottoposto a comandi dall’alto o limitazioni dal basso. Il gruppo maturò un maggiore senso di responsabilità, che sostituì alla disciplina imposta da un’autorità superiore, quella auto-imposta dal gruppo stesso, che in quanto tale rimase anche al momento del ritorno alle condizioni originarie. L’attenzione di Mayo si concentrò sul fatto che le ragazze, esercitando una libertà che prima non potevano avere, avevano creato un piccolo sistema sociale, che includeva anche l’osservatore. Tra di loro parlavano, scherzavano, e cominciarono a frequentarsi anche al di fuori del posto di lavoro. Egli concluse che ogni aspetto dell’ambiente industriale portava con sé un valore sociale: quando le ragazze furono “isolate” dal resto dei lavoratori per effettuare l’esperimento, ciò accrebbe la propria autostima; quando fecero esperienza di un rapporto amichevole con il proprio supervisore, ciò le rese più felici sul lavoro; quando egli discuteva preventivamente i cambiamenti con loro, ciò accrebbe il loro senso di appartenenza a un “team” allargato.” (2)

La terza fase dell’esperimento (svolta tra il 1931 e il 1932) si avvalse di un osservazione più discreta di un gruppo di quattordici lavoratori addetti ai collegamenti elettrici che svolgevano un lavoro che richiedeva un certo grado di collaborazione. I risultati mostrarono come la produzione fosse regolata da soglie in alto e in basso entro le quali potevano avvenire le variazioni. La maggiore attenzione alle dinamiche relazionali e l’utilizzo di un’osservazione più discreta permisero di distaccare l’effetto “Howthorn” da quello dei “gruppi primari” che in sostanza mostrano come le persone tendano a ricoprire il ruolo nel “posto desiderato nella concezione altrui” (definizione di Cooley). Recentemente alcuni ricercatori hanno addirittura negato l’effetto “Howthorn” riconducendolo alla attività dei “gruppi primari” aprendo una discussione su tali fenomeni.

La forte comunicazione e disponibilità dei ricercatori fu il primo esempio di counseling aziendale. Infatti i ricercatori furono attenti a spiegare quello che sta accadendo sia quello che sarebbe stato modificato che i risultati emersi (feedback) ai soggetti osservati, furono disponibili all’ascolto ed invitarono anche ad esprimere le difficoltà che emergevano durante il lavoro.

Bibliografia:

(1) Mayo, E. (1949). Hawthorne and the western electric company. Harvard Business School.
(2) Paparelli, A. (2000). Gli esperimenti di Mayo : qual è stato il vero “effetto Hawthorne”? SDA Bocconi – Ticonzero, (14).

Questo ciò che fu riportato in un articolo del 1951 da Trist e Bamforth che illustra una scoperta assolutamente controintuitiva della psicologia sociale.

L’opinione ingenua ritiene che una buona innovazione, che porta benefici e sicurezza sia quanto di più che i lavoratori attendano dalla propria organizzazione.
Trist e Bamforth appartenevano al Tavistock institute of human relation di Londra, istituzione che aveva ripreso l’illustre eredità della Tavistock clinic dove Bion aveva fondato un modello teorico che avrebbe cambiato per sempre la considerazione verso i gruppi.
Lo studio che fu svolto riguardava l’osservazione di un intervento di innovazione che fu svolto alla fine degli anni ’40 in Inghilterra. L’innovazione della parete lunga (Longwall) riguardava l’organizzazione del lavoro nell’industria di estrazione del carbone. Prima dell’introduzione di tale metodica i vari gruppi di lavoro provvedevano ad un intero ciclo di lavorazione (dall’istallazione delle attrezzature fino al trasporto del carbone estratto): il nuovo metodo prevedeva invece l’uso di equipe specializzate per ogni fase del lavoro, facendo risparmiare ai lavoratori fatica aumentandone anche l’efficienza. Stupì che a tale miglioramento i lavoratori risposero con un aumento delle malattie e dell’assenteismo. Il problema della nuova tecnologia era che aveva distribuito i lavoratori su una parete troppo lunga (circa 200 metri), il che portava alla disgregazione lo spirito di corpo dei gruppi lavorativi: l’alterazione dei rapporti sociali informali aveva reso infruttuosi (anzi dannosi) gli sforzi di miglioramento delle condizioni lavorative e di produzione. Da questa riflessione ha avuto origine la concezione dei sistemi lavorativi come “sistemi socio-tecnici”.

Bibliografia:

Trist, E. L., & Bamforth, K. W. (1951). Some Social and Psychological Consequences of the Longwall Method. Human Relations, 4(3), 3–38.

L’esperimento carcerario di Stanford (Zimbardo, 1999) era stato volto ad osservare quali fossero le conseguenze psicologiche legate al fatto di ricoprire un determinato ruolo: prigioniero o guardia. Seguendo un protocollo di ricerca ben ordinato fu selezionato un campione di 24 partecipanti accertando l’assenza di problemi psicologici o fisici, tutti studenti che rientravano nei canoni della normalità. L’assegnazione del ruolo fu fatta casualmente. L’esperimento fu realizzato nei locali sotterranei dell’università. La simulazione prevedeva il coinvolgimento degli organi di polizia che iniziarono l’esperimento procedendo ad un “arresto” dei futuri prigionieri con accuse di furto con scasso e rapina a mano armata. Dall’arresto in poi venivano seguite le solite procedure di spersonalizzazione: perquisizione, disinfezione, attribuzione di una uniforme con il numero, una calza come berretto (per simulare il taglio dei capelli) e per accentuare la sensazione di prigionia una catena al piede. Le guardie non ricevettero particolare addestramento salvo le raccomandazioni di rispettare e far rispettare le regole. L’abbigliamento era costituito da una uniforme colo cachi, un manganello (vero), un fischietto e un paio di grossi occhiali a specchio.

Gli eventi inaspettati dell’esperimento iniziarono già dopo appena 24 ore. Una rivolta dei “detenuti” scatenò un risentimento diffuso e molto aggressivo nelle “guardie”, che si coordinarono e decisero di rispondere con le “maniere forti”. Da questo punto in poi le azioni vessatorie aumentarono sempre più come le punizioni, i favoritismi e le violazioni della sfera personale. Dopo appena 36 ore dall’inizio dell’esperimento un “prigioniero” cominciò a manifestare disturbi emotivi acuti: qui comincia la cosa più sbalorditiva dell’esperimento, poiché i consulenti invece di comprendere la difficoltà rimproverarono il poveretto per non aver resistito abbastanza! Per la decisione circa la sua liberazione occorsero molte grida del ragazzo. Ancora più sbalorditivo fu quello che accadde il giorno seguente, quando dopo la “liberazione” e le visite dei familiari (che si dissero contrariati da tutto ciò, ma senza sottrarsi alle regole proposte) si sparse la voce che si stava preparando un tentativo di fuga dei “prigionieri”. Non solo le guardie ma lo stesso Zimbardo si adoperarono per sventare l’evento, ormai immersi nel ruolo di carcerieri e non più legato a quello di ricercatori sociali. L’attenzione alla gestione della struttura fu tale che per un giorno tutte le forze furono orientate a tale scopo “dimenticando” le registrazioni fondamentali per l’esperimento scientifico in corso. Furono cercati informatori all’interno del gruppo dei “prigionieri” e addirittura cercato il supporto della polizia per trasferire l’esperimento in una sede più sicura! Il ricercatore riporta anche la visita di un collega che lo irritò per aver chiesto quale fosse la variabile indipendente dell’esperimento: ormai pensava solo alla sicurezza della propria struttura carceraria. La pressione sui “prigionieri” aumentò con molti episodi di umiliazione e di abuso, dopo qualche giorno le “guardie” avevano il totale controllo sugli altri. È curioso osservare che nessuna delle “guardie” (che divenivano sempre più sadiche) chiese di allontanarsi dall’esperimento mentre 5 “prigionieri” manifestarono disturbi emotivi; nessuno del gruppo delle “guardie” arrivò in ritardo o chiese soldi extra per il lavoro fuori orario. La conclusione anticipata dell’esperimento (6 giorni invece di 14) non fu legata solo alla registrazione dell’aumento dei casi di abuso, ma fu necessario un intervento di richiamo etico da parte di una persona emotivamente vicina al ricercatore. Mentre il gruppo dei “prigionieri” si senti giustamente sollevato dalle proprie sofferenze, non accadde altrettanto nel gruppo delle “guardie”.

Bibliografia:

Zimbardo, P. G. (1999). Esperimento Carcerario di Stanford. Retrieved from http://www.prisonexp.org/italiano/

Zimbardo, P. G., Maslach, C., & Haney, C. (2000). Reflections on the Stanford prison experiment: Genesis, transformations, consequences. Obedience to Authority: Current Perspectives on the Milgram Paradigm, 193–237.

DEFINIZIONE

Sviluppo organizzativo:

complessa strategia attivata e supportata dal top management e articolata in un lungo arco temporale al fine di introdurre cambiamenti nella integrazione tra struttura, processi, tecnologia, strategia e cultura (Chesler, 1994).

 

SIGNIFICATO ATTUALE E ASPETTI STORICI

il termine sviluppo organizzativo  nel tempo è stato declinato diversamente dai vari autori; è stato usato quindi usato

– per promuovere la necessità dell’organizzazione di un adattamento all’ambiente (Benniss, 1969);

-per sviluppare nella organizzazione maggiore competenze ed efficacia (House, Cumings 1985);

– per  migliorare la qualità della vita lavorativa (Beer, Walton 1987);

– per sviluppare creative soluzioni organizzative (Cheslet 1994);

– per sviluppare la relazione persona – organizzazione (Sue 1995);

– per realizzare un migliore utilizzo delle risorse e una maggiore simmetria dell’azione collettiva attraverso l’integrazione delle competenze personali con la mission organizzativa ( Huffington, cole, Brunning 1997).

Dai diversi modi in cui viene interpretato lo “sviluppo organizzativo” è possibile notare come questo risenta di cambiamenti politici economici e sociali.  Il termine resta comunque una strategia volta al miglioramento della capacità di analisi e di soluzione verso i problemi di un’organizzazione, attraverso un percorso caratterizzato da a)  una diagnosi, b) una gestione collaborativa dei gruppi di lavoro formali c)una esplorazione della cultura intergruppi utilizzando il supporto di un consulente che fccia ricorso all’apparato teorico metodologico attraverso la scienza del comportamento e la ricerca intervento.

 

A partire dagli anni 80, grazie al progresso tecnologico, le organizzazioni non sono più preoccupate dalle dimensioni operative, diventate affrontabili e risolvibili grazie all’informatica e alla tecnologia ma diventano sempre più marcate le esigenze gestionali (previsione, coordinamento, controllo, progettazione, integrazione), e più forte la necessità di confrontarsi con la globalizzazione dei mercati dei servizi e dei prodotti.

 

Pur essendo presente una enorme letteratura sull’argomento “sviluppo organizzativo” le idee base e moltissimi riferimenti risalgono prevalentemente alle ricerche di Kurt Lewin e a quelle del Tavistock Institute of Human Relation di Londra. Questi due approcci hanno in comune la ricerca-azione che Franc e Bell definiscono «un intervento (ricerca) fondato sulla collaborazione cliente-consulente che consiste in una diagnosi preliminare, nella raccolta di dati presso il gruppo-cliente, una analisi dei dati, nella pianificazione delle azioni da parte del gruppo-cliente e infine nelle realizzazione delle azioni»

 

RICERCA – AZIONE

La ricerca-azione è dunque un metodo/processo di produzione di conoscenza che il consulente realizza “insieme al cliente” utilizzando metodi, tecniche, modelli e strumenti che verranno esplicitate ed applicate insieme al cliente durante il percorso di sviluppo. In questo modo è possibile realizzare un gruppo di lavoro che cerca di interrogarsi su

– strategie di pensiero e di decisione;

– sui significati condivisi ed impliciti delle pratiche organizzative;

– sulle altre possibilità di azione e costruzione dell’ambiente che attraverso il racconto e il confronto possono essere pensate.

Fare ricerca-azione nel campo dello sviluppo o del cambiamento organizzativo significa produrre conoscenza sulla relazione tra soggetti e contesto.

 

Il processo di sviluppo organizzativo è quindi un processo di produzione della conoscenza nel quale lo psicologo non da soluzioni preconfezionate bensì consiste nell’analizzare la relazione che individui, gruppi e organizzazione hanno instaurato fra loro e con il contesto allo scopo di indurre conoscenza (consapevolezza) negli stessi e orientarsi insieme a loro verso un nuovo modo di rapportarsi al mercato, alla tecnologia, alla cultura.

 

BIBLIOGRAFIA



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JAQUES E. (1951) autorità e partecipazione nella azienda  franco-angeli  milano 1975

FRENCH W.L., BELL C.H. ( 1984) organization development: behavioral science  intervention of organization improvement, prentice-hall, englewood cliff ( NJ)

Jennifer Lawrence e Diletta Leotta sono solo due dei tanti esempi di come l’intimità possa sfuggire al controllo del singolo per diventare fenomeno social, con conseguenze spesso imprevedibili. In modo analogo, l’intimità degli individui e dei gruppi all’interno dei contesti organizzativi può spostarsi dal privato al pubblico veicolato da strumenti relativamente semplici e immediati grazie a smartphone, pc e tablet.

La viralità è diventata una esigenza di mercato perché la paura di non essere riconosciuti e di rimanere nell’ombra è forte. Il rischio è che diventino virali parti di sé che dovrebbero rimanere private e in questo movimento si rischia che il pubblico riconosca il grottesco più che la spontaneità (e la cattiva pubblicità resta cattiva pubblicità).

Il recente episodio del video promozionale dei lavoratori di banca intesa ne è la prova: un gruppo di lavoro esponeva con spontaneità e in modo naif il proprio vivere l’azienda, forse spronato dal bisogno di viralità di cui sopra. Il giudizio dei social è stato inclemente diventando sì virale, ma controproducente per l’immagine dell’azienda. E non solo. Perché i soggetti che “ci mettevano la faccia” erano proprio i dipendenti, le persone e la loro intimità.

Un cortocircuito totale, insomma, che ha investito sia l’organizzazione pubblica sia l’intimità privata del singolo.

 

Le organizzazioni nel nostro sistema economico, infatti, hanno assunto la natura di entità che sfuggono al controllo del singolo. In questo movimento l’intimità sta evaporando, sta sfuggendo ad una forma definita che ne stabilisca confini e zone di sicurezza.

L’offerta al pubblico della propria intimità espone al rischio del giudizio e della ferita. Ma non solo. L’intimità pubblica diventa un ossimoro che modifica i confini dei due elementi che la compongono. Il proporre l’Io agli altri ne modifica forzatamente i confini e le caratteristiche. E in questo movimento rischiamo di perderci.

E allora che fare? Qui torna il tema del valore. Non dobbiamo dare un prezzo alla nostra intimità (non è una merce), ma dobbiamo darle un valore. E sarà questo che ci ricorderà l’importanza dei nostri vissuti e delle nostre emozioni.

Non si tratta di essere avari con le nostre emozioni, ma qui l’obiettivo non è se esprimerle o no, ma come esprimerle, come dar loro una forma. Dare una forma ai nostri sentimenti ci permetterà di condividerli agli altri, usando le modalità espressive che preferiamo. Una forma che li rispetti e che sia all’altezza del loro valore. Diverso è esprimere il sentimento per l’amata in un talk show oppure in uno spazio intimo. Ognuno è libero di scegliere il suo modo, certo è che davanti a migliaia di persone attraverso lo schermo il rischio è che il sentimento diventi informe ed effimero come l’etere. Pasolini in una intervista ha affermato che in televisione era obbligato ad autocensurarsi: e credo che sia proprio per la sua paura (o consapevolezza) di non essere capito e di essere irrimediabilmente travisato, lui e le sue emozioni. Quest’ultime avrebbero cambiato forma e perso di valore consegnandosi, trasportandola al giorno d’oggi, ad una viralità di bassa lega.

Lo psicologo sta molto attento a creare un ambiente relazionale e emotivo quanto più rispettoso della persona e delle sue emozioni. Un ambiente nel quale non sentirsi giudicati, ma posti al centro del proprio viaggio. Un viaggio particolare che solo davanti ad uno sconosciuto, ma esperto, psicologo si può fare.

Nelle organizzazioni il lavoro si appoggia su questa visione di rispetto e professionalità verso la persona e verso l’azienda: sia che si tratti di analisi dello stress, di miglioramento del benessere, di consulenza organizzativa oppure anche di una formazione più tecnica sempre sarà al centro la relazione con le persone e l’azienda. Così come la persona ha bisogno di un ambiente ottimale per esprimersi anche l’organizzazione ha bisogno di un intervento che sia pensato sulla propria natura e sulle proprie esigenze. E qui la relazione col professionista è molto importante perché sarà colui che accompagnerà le persone, e l’organizzazione, in un nuovo viaggio verso un miglior benessere e verso una migliore produttività.

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